Se una notte – durante la 15° edizione della Biennale Architettura di Venezia dello scorso anno – come per incanto avessero preso vita tutte le piccole sagome usate da architetti e progettisti per rendere più suggestive le creazioni presenti in mostra, che cosa avrebbero detto e fatto? Dove sarebbero andate… e, soprattutto, cosa avrebbero pensato dei contesti in cui erano state collocate, della città o degli spazi espositivi in cui erano state invitate a soggiornare? Per chi ha visto il film Una notte al museo è più semplice immaginare la scena. In quella vicenda ambientata al Museo di Storia Naturale di New York, ogni notte prendevano vita scheletri di dinosauri, statue di cera, riproduzioni di personaggi famosi del passato… e alle prime luci del giorno tutto tornava alla normalità.
Ho provato a immaginare una situazione simile in Biennale, dove anno scorso per la prima volta si è ragionato soprattuto sulle dimensioni sociali ed etiche dell’architettura, mettendo in secondo piano la forma e il fascino delle interpretazioni degli architetti più visionari e famosi del mondo. L’impostazione data alla 15° Edizione dal curatore Alejandro Aravena parlava di sostanza, di materia. Di un nuovo pensiero sul concetto di bene comune, dove l’architettura può veramente fare la differenza.
Tante sono le interferenze (politiche, economiche…) che rendono difficoltoso il percorso verso un’architettura nuova, a misura di persona, dove qualità della vita e soddisfazione delle esigenze di ogni giorno – non solo quelle primarie – costituiscono la base da cui cominciare a ragionare e il punto d’arrivo cui tendere. Aravena ha proposto ai progettisti invitati di riflettere insieme ed esprimersi sulle soluzioni, più che sui problemi. Di portare esempi concreti già in essere, più che ipotesi di lavoro o denuncia di ciò che ancora non funziona. Gli apporti più interessanti di questa Biennale – secondo critici, storici e addetti ai lavori che nei mesi passati ne hanno esaminato le proposte – sembrano essere venuti da continenti in cui pressione demografica, guerre, eventi naturali avversi o difficoltà strutturali hanno creato una spinta al cambiamento tale da convogliare tutta l’energia creativa verso una nuova visione, più che sul ripensamento di vecchi approcci. Una visione che va dritta al nucleo del bisogno di relazione, connessione e interazione pacifica e rispettosa fra esseri umani.
Una visione che mette le persone al centro: cioè gli uomini e le donne che andranno ad abitare negli edifici, a frequentare gli spazi pubblici, i beni comuni; ma anche coloro che li progettano e li costruiscono con le proprie mani.
Interessantissima la domanda dipinta sul muro: chi ha fatto il tuo edificio?
Noi sappiamo chi, quali e quante persone hanno costruito le nostre case? Quanti di noi sanno se gli artigiani coinvolti sono stati pagati il giusto e in regola, se hanno lavorato in sicurezza e un numero opportuno di ore? Quali tipi di competenze erano in grado di offrire, se le hanno espresse e come sono state gestite le emergenze… Abbiamo idea di come sono stati i rapporti fra tecnici ed esecutori, in che modo gli interessi dei singoli (appaltatori, specialisti, fornitori di materiali, manodopera) si sono intrecciati a quelli dei fruitori finali? E per allargare il campo, abbiamo informazioni vaghe o precise di quali sostanze è composta la casa in cui viviamo? Da dove vengono i materiali, quanto durano, che impatto hanno sull’ambiente e sul nostro corpo…
Quando in passato insegnavo nei musei ad adulti e bambini ad entrare in connessione con gli oggetti esposti (di cultura materiale, storici o archeologici), facevo fare spesso questo gioco di analisi e riconoscimento. Ogni oggetto è frutto dell’interazione di più forze e persone, di più pensieri e azioni; e imparare a vedere che cosa c’è dietro alle cose (e alle case) porta la nostra relazione con esse ad un livello di consapevolezza e profondità maggiori. Una delle cause principali del senso di estraniamento e alienazione che si prova in certi ambienti è la totale mancanza di comprensione e connessione con essi. E’ come un dialogo interrotto, o mai iniziato, con qualcuno col quale siamo “obbligati” a convivere.
Nel saggio a tre voci Dove abitano le emozioni (Einaudi 2007) Paolo Crepet, Mario Botta e Giuseppe Zois incrociano le visioni di psicologia, architettura e analisi della società per capire se è ancora possibile ripensare la città e la casa come luoghi in cui essere felici. Raramente – scrive Zois – gli edifici riescono a trasmettere tutto il bagaglio delle emozioni e dei sentimenti che ne hanno accompagnato la costruzione. E, al di là delle riflessioni teoriche, a molti di noi è capitato di subire le conseguenze (a volte sottili, altre molto pesanti) di una totale disconnessione con gli artefici degli ambienti in cui viviamo. O per lavori condotti con approssimazione e nella fretta, o per la mancanza di chiarezza nel dialogo con chi doveva tradurre in realtà i nostri desideri. Un pavimento montato male, un intervento per contrastare l’umidità che non porta alcun risultato o peggiora le cose, una disposizione dei vani che non corrisponde alle nostre esigenze quotidiane come avremmo sperato… Sono piccole o grandi mancanze e difficoltà con cui ci ritroviamo a convivere quotidianamente e che magari non creano un fastidio tale da “obbligarci” a intervenire, ma producono una lieve insoddisfazione che toglie piacere nel vivere i nostri spazi così come li abbiamo immaginati e li avremmo voluti.
Per Crepet (psichiatra e sociologo) gli individui in relazione con l’habitat si dividono in avulsi e contaminatori. I primi potrebbero vivere, lavorare e dormire in qualsiasi luogo senza avvertire particolari necessità o disagio; i contaminatori invece trasformano qualsiasi cosa in casa (la scrivania in ufficio, l’auto, la camera d’albergo…). Esprimono il bisogno di far proprio qualsiasi luogo, di trasformarlo in qualcosa di affettivo… Sono in grado di personalizzare tutto ciò che incontrano. Tra gli “avulsi” e i “contaminatori” – continua il sociologo – c’è la stessa differenza che si può attribuire ai termini inglesi di “house e home”: la prima ha un significato burocratico, il luogo della residenza fiscale, la seconda è il luogo affettivo per eccellenza, ciò che sogni quando ne sei lontano.
Chissà se fra le sagome e le statuine in balsa o plastica presenti nei vari Padiglioni della Biennale, c’erano più avulsi o contaminatori.
Considerando le caratteristiche strutturali di alcune delle proposte penso che fossero in gran numero gli avulsi. O per lo meno, da contaminatrice convinta, penso che per quanto mi riguarda non riuscirei ad essere felice in luoghi che esprimono nella forma un senso di precarietà, instabilità o scarsa connessione con il contesto naturale.
E’ incoraggiante l’attenzione dimostrata verso il desiderio umano di aggregazione e condivisione del tempo e degli spazi comuni. Ma sembra ancora lontano, o espresso da pochi progettisti, altrettanto interesse per la dimensione fisico/psicologica dell’abitare. Forme e colori, suddivisione degli spazi e dimensioni, rapporto con il contesto naturale e materiali utilizzati, inserimento degli edifici in un contesto armonico che tenga conto di quelli preesistenti… Sono tutti elementi “fisici” che hanno grandissimo impatto sulla psiche umana, e di conseguenza sulla possibilità di vivere bene nelle proprie case; ma non sembra che questo collegamento sia ancora stato compreso in tutta la sua rilevanza dagli specialisti del settore. Speriamo che la nuova direzione intrapresa dall’architettura sociale preveda un esame più accurato anche di questi aspetti.
Per comprendere i cambiamenti in corso è estremamente interessante scorrere le gallerie fotografiche di Noarts, un sito che dal 2006 segue con sguardo attento l’evoluzione del pensiero e della ricerca internazionale su arte contemporanea, paesaggio urbano e architettura. Nella Galleria di Noarts si trova una selezione delle ultime edizioni della Biennale di Venezia, suddivise per anno e tipologia: da qui sono tratte le immagini utilizzate per le riflessioni di oggi. Ringrazio sentitamente per la disponibilità! Entrambi siamo affascinati dalle piccole sagome e statuine usate dagli architetti in Biennale… e il pensiero di saperle in giro di notte per l’Arsenale, ci fa sorridere parecchio…
💙 Alba
Io sono decisamente una “contaminatrice” 😉 Molto interessante l’articolo e bellissime le foto.
Grazie Laura! Da quello che ho visto e sentito in questi giorni in risposta all’articolo… i lettori di Homeart devono essere tutti “contaminatori” 💙