E poi succede che un sabato pomeriggio, sfogliando in cucina un’edizione del 1923 del mitico testo di Pellegrino Artusi – L’arte di mangiare bene – si cominci a giocare con il tempo assieme a Monica, cuoca di grande talento e consulente di Homeart per tutto ciò che riguarda la cucina di una volta e le tradizioni gastronomiche regionali. Prima le scriveva su un grande quaderno ad anelli, le sue ricette preferite: ora, unica sua concessione alla modernità in cucina, le archivia su un tablet rosa confetto infarinato. Il grembiule di Ratatouille, con il musino di Rémy sorridente, ci accompagnerà lungo tutto il viaggio… Siamo del tutto sprovviste di un piano preciso, non sappiamo neanche se abbiamo tutti gli ingredienti che servono, ma il senso di questi incontri e degli articoli che verranno va in tutt’altra direzione. Di sicuro non serve un’ennesima rubrica su ricette o consigli di cucina e alimentazione, ce ne sono già in quantità e di ottime in rete, in edicola o in TV. A noi preme soltanto riportare l’attenzione su aspetti, interiori e non, che collegano l’universo del cibo con tutto ciò che è nutrimento per lo spirito, la mente e il cuore.
Mentre armeggio con macchina fotografica e luci, Monica comincia a impastare e il flusso dei ricordi si attiva all’istante. Ha cominciato da piccolissima a fare la pasta in casa, secondo la migliore tradizione romagnola, ancor prima di andare a scuola: quando faceva le prime prove con terra e acqua in giardino, accanto al pollaio, il nonno le dava il permesso di usare anche le uova per rendere il suo gioco ancora più interessante e verosimile, mentre la nonna sgridava entrambi. I suoi gesti sono sicuri e composti e in pochi minuti ricevo più indicazioni utili in questa occasione che in decenni di letture di libri e riviste di cucina. Come prima cosa mi ricorda che la farina – quella che va aggiunta di mano in mano sulla sfoglia per renderla della giusta consistenza – non si sparge dall’alto (avevo sempre fatto così), ma si lancia delicatamente di lato. Come quando si lanciano i sassi nell’acqua per farli rimbalzare sulla superficie. Così non si formano accumuli e la farina si appoggia uniformemente su tutta la sfoglia. Si è deciso di fare la pasta e fagioli usando i mafrigul, detti anche manfettini, pestini, grattini, grattoni… piccolissime e irregolari briciole di sfoglia che si sposano perfettamente con la consistenza del brodo di fagioli.
Per fare i mafrigul la pasta deve essere piuttosto soda e quindi si usa più farina rispetto al solito (100/ 110 grammi per ogni uovo) e si lascia riposare e seccare a lungo. La forma a cuore è un omaggio al nostro comune simbolo preferito. Mentre la pasta riposa Monica prepara “gli odori” per il soffritto, il classico misto di sedano/carota/cipolla che compone la base di tante preparazioni, romagnole e non. Vengo a sapere per la prima volta in vita mia che “gli odori” tagliati fini fini – uno alla volta – non si mettono mai tutti insieme a sfrigolare sul fuoco, ma vanno aggiunti seguendo un ordine preciso. Prima la cipolla (perchè deve perdere da sola un poco della sua acidità), poi carota (anche se Artusi la evita) e sedano. Dopo averli rosolati in olio extravergine di oliva, si aggiunge la passata di pomodoro, il brodo di fagioli con la metà di essi passati col passaverdura (borlotti o cannellini, secondo preferenza) e infine si aggiusta il tutto con la quantità di sale che si desidera. I piatti di una volta, fatti oggi come allora, prevedono una relazione con il tempo molto diversa da quella a cui siamo abituati nella nostra routine quotidiana. La fretta mal si accorda alle note di una cucina allegra, paziente e in sintonia con la natura. Quando siamo di corsa ben venga l’aiuto di mixer, impastatrici e robot, ma quando il tempo c’è… impastare a mano la sfoglia, anziché lasciarlo fare a una macchina, implica un contatto fisico che crea una relazione più stretta fra l’alimento e chi lo prepara: mentre la macchina ha un programma predeterminato di lavoro, nella preparazione casalinga il tempo di lavorazione della sfoglia viene deciso dal tocco e dallo sguardo. Dopo un po’ di pratica – dice Monica – si “sente” quando l’impasto è pronto, quando è ora di fermarsi. Il creare con le proprie mani un qualsiasi tipo di impasto – che sia pane, pizza, torta o pasta non fa differenza – procura un senso di soddisfazione molto particolare.
Poi, siccome il salato chiama il dolce e siamo in periodo di carnevale, dopo la pasta e fagioli decidiamo di fare due “chiacchiere“, chiamate altrove anche crostoli, frappe, sfrappole… Parte un’altra fontana di farina e uova, nella quale Monica aggiunge zucchero, bicarbonato e limone. Dopo pochi secondi di frittura dalla cucina comincia a emanare un profumo delizioso di zucchero a velo e di festa.
3 uova – 3 etti di farina – 2 cucchiaini di zucchero
1 cucchiaino di succo di limone o vino bianco – 1 pizzico di bicarbonato
Bontà dei piatti a parte, è stata l’atmosfera creata cucinando insieme a rendere speciale questo sabato “di una volta”. Mentre trafficavamo fra pentole e fornelli, fra farina che volava ovunque e commenti in dialetto, il tempo di una volta si è messo a giocare con quello di oggi ed è stato solo il trillo del telefono, dopo ore, a riportarci ai nostri rispettivi impegni familiari. Abbiamo mangiato sfrappole per giorni, forse abbiamo esagerato con le quantità, ma la qualità dei piatti (e del pomeriggio passato a ridere insieme) è stata indescrivibile. Non so se Artusi sia stato del tutto d’accordo sui nostri esperimenti/abbinamenti, ma a un certo punto guardando il suo ritratto in quelle pagine ingiallite ci è sembrato che dietro lo sguardo severo, sotto i baffi, gli fosse scappato un sorriso…
Nella prossima puntata: la ricetta della Ratatouille, nella doppia versione francese e romagnola, presentata da Rémy in persona.
💙
Alba e Monica