Udire, ascoltare, sentire…

Udire, ascoltare, sentire… tre sfumature diverse per un unico senso di percezione. Tre modi di entrare nell’ascolto a un livello sempre più profondo che coinvolgono il corpo, la mente, la sfera delle emozioni e dei sentimenti.

Una delle sfide importanti dei nostri tempi è di sicuro quella di tornare ad un uso più equilibrato e ad una maggior cura, individuale e collettiva, di questo senso. Frastornati di giorno e di notte da rumori di fondo costanti e reiterati, oggi l’udito soffre – da un punto di vista fisico, ma non solo – come mai è accaduto prima d’ora. L’uso eccessivo di cuffie e auricolari a volume molto alto produce danni fisiologici rilevanti (dai fastidiosi acufeni a patologie più severe), mentre l’ascolto attento e prolungato di sé stessi e di chi ci circonda diventa sempre più difficile. Che questo accada anche per l’uso prevalente di mezzi di comunicazione scritti e visivi può essere, ma forse c’è dell’altro.

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Un ascolto autentico necessita di capacità concrete, di abilità ben definite: presenza nel qui e ora e attenzione, contegno (disciplina nel contenersi), tanta pazienza ed empatia. Nell’era del multitasking, invece, l’attenzione divisa viene celebrata come massima competenza, la velocità nel raggiungere il proprio obiettivo è divenuto un imperativo dal quale niente deve distogliere e il selfreferral – termine inglese traducibile con “autoriferimento” – viene vissuto nella sua sfumatura estrema, quella che sfocia nell’egocentrismo più esasperato.

Italo Calvino diceva che… non è la voce che comanda la Storia: sono le orecchie. Dunque non chi parla, ma chi ascolta fa la storia. Non sembrerebbe in apparenza, vedendo il mondo, ma forse è proprio così. Effettivamente chi ascolta “per davvero” comprende prima i limiti propri e altrui, individua prima le soluzioni ai problemi, impara dai propri fraintendimenti e produce un cambiamento, attivando progressi e dando vita ad un futuro nuovo grazie alla sua visione silenziosa…

Ogni volta che anticipiamo le possibili risposte dei nostri interlocutori o che pensiamo alla nostra risposta mentre l’altro sta ancora parlando, siamo lontani da un ascolto attento ed efficace. Stiamo lasciando agire i nostri meccanismi di reazione automatica e perdiamo la possibilità di una condivisione vera e profonda. Perché lo facciamo? Che cosa ci spinge ad agire così? E quale vantaggio otterremmo agendo in altro modo?

A parte l’attenzione divisa e frammentata su più fronti, tipica del fare più cose contemporaneamente (e che merita un approfondimento a parte)… succede che ascoltiamo in modo superficiale a causa di paura o ansia, e quest’ultima reazione di solito è figlia della prima. Potremmo aver l’abitudine di anticipare le risposte per dare un’immagine di prontezza, sollecitudine e intelligenza… dunque ansia da prestazione. Oppure potremmo essere mossi dall’urgenza di accelerare la comunicazione perché va a toccare temi per noi spinosi… paura di non governare sentimenti ed emozioni che emergono durante il dialogo. Può essere che non ci sentiamo ascoltati noi per primi e, presi da rabbia o delusione, riduciamo (a volte anche inconsapevolmente) la comunicazione in entrata. Persino l’atteggiamento egocentrico, di chi ascolta poco o niente, può avere radici nel sentimento della paura (di non essere riconosciuti, compresi o voluti).

Se la paura sembra essere alla base di molte delle difficoltà che riscontriamo nell’ascolto nostro e altrui, forse la soluzione sta in una maggiore attenzione e conoscenza dei nostri meccanismi automatici di reazione. La paura fa ancora più paura, quando non la si conosce o non la si frequenta per prendersene cura. La paura ha una componente “fisica” che può aiutarci moltissimo nel renderci conto di quando emerge in automatico e ci fa reagire senza controllo. C’è chi la sente come una stretta allo stomaco, chi nella schiena e si curva in segno di protezione; c’è chi si irrigidisce e avverte la tensione nei muscoli… Ciascuna di queste reazioni fisiche ha una sua corrispondenza nelle varie sfumature del sentimento della paura: paura di non riuscire a esprimere la propria identità, paura dell’altro o di sè, del nuovo o dell’ignoto. E tante altre. Diventando più attenti ai segnali del corpo siamo in grado di essere anche più vigili sulle nostre risposte emotive e possiamo cominciare ad ascoltare e a comunicare in modo più pieno ed efficace.

Prossimamente analizzeremo metodi e suggerimenti di chi (ieri e oggi) ha fatto del silenzio, dell’ascolto e della comunicazione empatica una pratica di vita quotidiana. Insieme a Thich Nhat Hanh e Marshall B. Rosenberg – vedi recensione su Lifestyle/Persone e messaggi ispiranti – entreremo nel mondo del silenzio “nobile e gioioso” e dell’ascolto profondo.